Resistenza palestinese: diritti dei palestinesi non sono negoziabili

I gruppi della Resistenza palestinese hanno dichiarato che la conferenza economica sponsorizzata dagli Stati Uniti in Bahrain, dal 25 al 26 giugno 2019, è un pericoloso passo in avanti per annientare la Palestina i cui diritti non sono negoziabili. La questione della Palestina è totalmente politica e i diritti dei palestinesi non sono in vendita …

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Intervista ad Ahmad Sa’adat: “Cessare i negoziati, rinnovare l’unità nazionale e ricostruire la resistenza”

Nella primavera del 2002, al culmine della seconda intifada in Cisgiordania[…] le forze israeliane portarono avanti campagne di arresti ad ampio raggio in tutti i territori occupati e invasioni su larga scala di numerose città palestinesi. Ahmad Sa’adat […] [rappresenta una ] delle figure politiche palestinesi più importanti e conosciute arrestate in quella campagna, diventando nel tempo anche un leader del movimento dei prigionieri.

Ahmad Sa’adat è il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) ed ex membro del Consiglio Legislativo Palestinese (CLP). È il funzionario di più alto rango appartenente a una fazione palestinese attualmente imprigionato dal regime israeliano di occupazione. La prigionia di Saadat non è atipica per i leader politici in Palestina, molti dei quali sono stati arrestati e detenuti, con o senza accuse, da Israele. Tuttavia, ad essere uniche erano le circostanze dell’arresto iniziale di Saadat ed i primi quattro anni della sua detenzione.

Uno degli aspetti critici degli arresti del 2002 era la collaborazione di sicurezza tra l’Autorità Palestinese (AP) e le forze di occupazione israeliane. Grazie al suo alto profilo e al livello di coinvolgimento dell’AP, l’arresto di Saadat si distingue in particolare come uno degli esempi più eloquenti di questa stretta cooperazione. […]

Giudicato da un tribunale militare israeliano nel 2006, Saadat è stato condannato come leader di un’organizzazione terroristica illegale. Nel periodo di detenzione israeliana, tra cui tre anni di isolamento, Saadat ha partecipato a numerosi scioperi della fame per migliorare le condizioni dei detenuti, e dal 2011 è stato uno dei leader più risoluti del movimento dei prigionieri. Nella politica palestinese, Saadat è diventato il simbolo di molte cose: il militante tenace (munadil), la vittima del tradimento dell’AP, il leader del partito, il prigioniero, e altro ancora. Ma Saadat è anche un fratello, un marito, un padre e ora un nonno. Come molti prigionieri, anche lui ha subito una serie di restrizioni non solo al suo lavoro politico, ma anche alla possibilità della sua famiglia di fargli visita in carcere e, come prolungamento della pena israeliana, alla loro [dei membri della famiglia, ndt] possibilità di ottenere permessi per viaggi personali e, pertanto, ai loro movimenti quotidiani. […]

In che modo la prigione ha cambiato la tua vita personale? Qual è il significato della tua vita? Come vedi e come ti tieni aggiornato sulla situazione politica? Puoi scrivere?

La mia esperienza carceraria ha forgiato ed ha temprato allo stesso tempo la mia visione politica e la mia appartenenza di partito, ma il tempo che ho trascorso in prigione è stato anche arricchito dalla mia esperienza di lotta vissuta al di fuori [della prigione, ndt]. A intermittenza, ho trascorso un totale di 24 anni in carcere, ed eccomi qui, incarcerato ancora una volta con il resto dei miei compagni. Passo il mio tempo a leggere e ad impegnarmi in attività legate alla nostra lotta di prigionieri, che comprende l’istruzione dei miei compagni e l’insegnamento di un corso di storia all’interno del programma dell’Università di Al-Aqsa. La maggior parte dei miei scritti riguarda le esigenze dell’organizzazione dei prigionieri del PFLP e le questioni di interesse nazionale. Cerco anche di sostenere i membri della dirigenza del FPLP all’esterno ogni volta che posso. Se dovessi descrivere in che modo la detenzione attuale mi ha cambiato, lo riassumerei dicendo che osservo gli eventi politici con più distacco in quanto mi è stata offerta l’opportunità di non essere immerso nei piccoli problemi quotidiani del lavoro politico e di organizzazione all’esterno. Questa prospettiva non ha fatto altro che rafforzare la mia convinzione della solidità della visione del FPLP dal punto di vista ideologico, politico o in termini pratici, comprese le sue posizioni sulle questioni urgenti ed esistenziali attualmente al centro della polemica: i negoziati, la riconciliazione [intra-palestinese] e le prospettive di uscita dalla crisi e dall’impasse attuale.

Sei stato arrestato nel 2002 e detenuto in una prigione dell’AP di Gerico sotto la supervisione di guardie americane e britanniche. Nel marzo 2006, sei stato trasferito in una prigione israeliana e condannato a trent’anni. Puoi fare un confronto tra la tua esperienze sotto “custodia internazionale” e nelle prigioni israeliane?

In breve, la detenzione sotto controllo britannico e americano ha reso evidenti le aberrazioni causate dal processo di Oslo. Sotto il cosiddetto Accordo Gaza-Gerico, sono stato messo in prigione a Gerico dall’AP, per conto degli israeliani, sotto la supervisione americana.

Per ragioni politiche, in particolare per la campagna elettorale del partito Kadima di quell’anno, il governo israeliano dichiarò nel 2006 che ero di loro competenza, svelando il vero significato del termine “al-Himaya” [1] – l’appellativo usato per descrivere l’ondata di arresti politici eseguiti dall’AP in conformità con i dettami israeliani di sicurezza. Il termine fu propinato dall’AP al pubblico per giustificare l’ondata di arresti.

In sostanza, la mia opinione è che [a Gerico], gli americani e gli inglesi si siano accordati con gli israeliani, e le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese si siano arrese, mettendoci nell’impossibilità di difenderci o di combattere per la nostra libertà. Mi duole dire che da questo assurdo episodio non è stata imparata alcuna lezione né è stata tratta alcuna conclusione e che, sotto diversi nomi, continuano ad essere svolte altre operazioni ugualmente sbagliate.

In pratica, a gestire la prigione di Gerico erano sorveglianti stranieri, e il ruolo dei funzionari palestinesi, dal ministro degli Interni al più umile poliziotto, era semplicemente quello di far rispettare le direttive e le condizioni base degli israeliani. Questo ha condotto alla nostra detenzione ma anche all’arresto di decine di altri militanti, rastrellati sia a Gerico che in altri luoghi. Essere in una prigione israeliana è un’esperienza completamente diversa: lì ci troviamo di fronte alla deliberata politica israeliana di spezzare la nostra volontà, calpestare i nostri diritti umani e fiaccare le nostre energie da militanti. Per i detenuti in generale, e per i capi del movimento dei prigionieri in particolare, la prigione diventa a tutti gli effetti un altro campo di battaglia contro l’occupazione.

Puoi descrivere il rapporto con la tua famiglia durante il periodo di detenzione, e il rapporto con il tuo nuovo nipote?

Per me come essere umano, la mia famiglia, per quanto stretta o larga la si possa intendere, è stata e rimane la parte maggiormente lesa. Hanno pagato un prezzo pesante per i miei continui arresti, pur rimanendo una delle principali fonti di sostegno per me come militante.

Mio fratello, Muhammad, è caduto nel fiore della sua giovinezza; i miei genitori, i miei fratelli e i miei figli sono tutti stati privati ​​del mio amore per loro. Fatta eccezione per mia moglie, Abla, e mio figlio maggiore, Ghassan, le cui carte di identità di Gerusalemme permettono loro di viaggiare fino al carcere senza bisogno di un permesso da parte degli israeliani, negli otto anni trascorsi dal mio ultimo arresto la mia famiglia non ha potuto farmi visita. Per quattro anni e mezzo, tre dei quali trascorsi in isolamento, perfino Abla e Ghassan non hanno potuto visitarmi, e la mia comunicazione con loro si limitava alle lettere.

In breve, ho gravemente trascurato i miei doveri nei confronti della mia famiglia. Spero che arrivi il giorno in cui potrò farmi perdonare, per quanto tardivamente. Per quanto riguarda la mia nipotina, lei ha ereditato i geni della “minaccia per la sicurezza”, così, in assenza di una parentela di primo grado [2], le è stato impedito di visitarmi – per non parlare naturalmente delle onnipresenti “ragioni di sicurezza”.

Come passi le tue giornate in prigione? E come tieni il passo con gli affari del FPLP? La prigionia ti limita in questo proposito? Fai affidamento sulla leadership esterna per guidare il partito?

Cerco di conciliare i miei impegni di partito con i miei impegni globali di nazionalista sia in carcere che all’esterno. Naturalmente, il fatto che io sia in prigione limita la mia capacità di adempiere ai miei doveri di segretario generale del FPLP: perciò faccio affidamento sullo spirito collegiale dei miei compagni nella direzione del partito e sui processi democratici che regolano l’esercizio della loro leadership. Questi due fattori hanno contribuito all’iniezione di sangue fresco nelle nostre file. I giovani rappresentavano oltre la metà dei partecipanti al nostro recente congresso.

Il FPLP ha recentemente tenuto il suo congresso nazionale [3]. Anche se i risultati e le risoluzioni non sono stati resi pubblici, è trapelata la notizia di un grande dissenso che ha offuscato l’incontro e ha portato alle dimissioni di ‘Abd al-Rahim Malluh, il vice Segretario generale, nonché di alcuni funzionari di alto rango. Abbiamo anche sentito che il congresso ha insistito sulla tua candidatura come leader del partito. Non credi che la detenzione prolungata ostacoli la tua leadership del partito e perché il FPLP non ha proposto ad altri di unirsi alla leadership?

Dato che siamo un partito democratico di sinistra, le differenze di opinione e di giudizio all’interno della leadership sono solo naturali. Non siamo l’uno la fotocopia dell’altro, il che sarebbe contro natura. Tuttavia, non è a causa delle nostre differenze che un certo numero di compagni ha lasciato la leadership del partito – e non uso la parola “dimissioni” perché sono ancora membri del PFLP. Il partito beneficerà ancora della loro presenza e partecipazione, dal momento che continueranno a dare il loro contributo grazie alla loro preziosa e variegata esperienza di militanti. Come hanno affermato in diversi media, il motivo che li ha spinti a lasciare i posti che occupavano è stato quello di aprire la strada dei vertici della dirigenza ad una serie di giovani quadri.

Qui devo ribadire la mia stima e il mio apprezzamento per questa iniziativa, che ha ulteriormente consolidato il percorso già intrapreso dai nostri leader fondatori, tra i quali George Habash, Abu Maher al-Yamani e Salah Salah. Per quanto riguarda la mia rielezione come segretario generale nonostante la mia reclusione: questa non è stata una mia scelta personale, ma la scelta dei miei compagni – i delegati al congresso ed i quadri del partito. Considero mio dovere rispettare la loro fiducia in me, e raddoppiare i miei sforzi nell’adempiere alle sfide derivanti dalle mie responsabilità.

Pensi che il Documento dei prigionieri (Documento di riconciliazione nazionale) [4] sia ancora valido? E se sì, che cosa ostacola la sua attuazione? Se il documento ha bisogno di modifiche, quali cambiamenti proponete?

Il documento dei prigionieri resta una base politicamente valida per arrivare alla riconciliazione e rinnovare l’unità nazionale. Inoltre, esso stabilisce il quadro generale della struttura organizzativa, con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come avanguardia, fondata sul nazionalismo democratico, vale a dire, ove possibile, elezioni democratiche e partecipazione popolare.

In realtà, il documento è già stato modificato dagli accordi scaturiti da anni di colloqui bilaterali tra Fatah e Hamas. Questo comporta necessariamente la revisione e la ricostruzione delle istituzioni dell’OLP, in particolare il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP). Inoltre, favorirà il consolidamento del documento e ci permetterà di passare dalla co-esistenza politica nell’arena di palestinese alla vera unità nazionale, sia in termini di azioni che di programmi.

A causa delle circostanze che hanno portato alla sua creazione, il testo del documento dei prigionieri presenta alcune ambiguità in alcuni punti, in particolare per quanto riguarda l’approccio ai negoziati e la strategia più efficace da adottare nel contrastare l’occupazione.

Venti anni dopo Oslo, non c’è né la pace né uno stato – solamente trattative e divisione politica. Come si supera questo stallo?

Trascorsi due decenni, gli esiti dei negoziati hanno definitivamente dimostrato che è inutile continuare il processo secondo il quadro di Oslo.

Per quanto mi riguarda, la continuazione degli inutili negoziati e l’attuale divisione nella classe politica palestinese sono indistinguibili. Il presupposto per la creazione e il consolidamento dell’unità nazionale è nell’impegno unanime verso una piattaforma politica chiara e unitaria fondata su un compromesso tra le varie forze e correnti all’interno del movimento nazionale palestinese.

Pertanto, se vogliamo superare l’attuale fase di stallo, dobbiamo smettere di puntare tutto sui negoziati e non prendervi più parte. Se queste dovessero continuare, allora come minimo il gruppo interessato deve riportare i negoziati sulla pista giusta tenendo fede ai principi e alle condizioni già definite, e cioè: la fine degli insediamenti, il ricorso alle risoluzioni delle Nazioni Unite e il rilascio dei prigionieri e dei detenuti. Questo presuppone ripartire dal successo ottenuto con la nostra adesione alle Nazioni Unite come Stato non membro al fine di elaborare un approccio globale per cui la questione palestinese viene essere risolta sulla base del diritto internazionale, come espresso nelle dichiarazioni e nelle risoluzioni delle Nazioni Unite alle quali Israele deve conformarsi; e infine, insistere nella nostra richiesta di adesione a tutte le istituzioni delle Nazioni Unite, in particolare alla Corte Internazionale di Giustizia.

Infine, dobbiamo lavorare per attuare i termini dell’accordo di riconciliazione formando subito un governo di riconciliazione nazionale e mettendo in piedi una struttura direzionale di transizione. Il compito di questa istituzione transitoria sarebbe quello di impegnarsi nella ricostruzione e nel rafforzamento dell’OLP e nell’organizzazione delle elezioni legislative e presidenziali dell’AP, nonché delle elezioni del Consiglio nazionale palestinese [CNP] entro sei mesi (anche se questo lasso di tempo può essere esteso, se necessario). L’aspetto di gran lunga più importante, però, è che la popolazione deve essere mobilitata intorno ad una piattaforma politica unitaria di resistenza nazionale in tutte le sue forme.

Dove ci porteranno i negoziati in corso secondo lei?

Chi ha seguito le posizioni del governo israeliano e statunitense capisce che le probabilità di raggiungere un accordo politico sancito dal diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, vale a dire, in conformità con i diritti del popolo palestinese al ritorno, all’autodeterminazione e all’indipendenza nazionale, sono pari a zero.

Credo che nessun leader palestinese, non importa quanto flessibile, sia in grado di soddisfare le richieste israeliane o americane e abbandonare questi principi fondamentali. Tutt’al più, i negoziati non faranno altro che prolungare la gestione delle crisi fornendo una copertura per i progetti israeliani di insediamento coloniale sul terreno, per scongiurare il biasimo internazionale e per imporre la propria visione di un soggetto politico palestinese pari a poco più che un protettorato. Inoltre, i negoziati consentono agli Stati Uniti di disinnescare le tensioni e contenere il conflitto in Palestina, e di concentrarsi sulle questioni regionali che ritiene fondamentali, vale a dire la Siria e l’Iran.

Il movimento nazionale palestinese deve essere ricostruito. In che modo e con quali prospettive politiche?

Sono d’accordo con te che il movimento nazionale palestinese ha bisogno di essere ricostruito. Credo che il punto di partenza debba essere la riconfigurazione di tutte le fazioni, sia nazionaliste che islamiste, al fine di razionalizzare programmi e punti di discussione e rafforzare il nostro riesame del modo migliore di procedere nella lotta contro l’occupazione. Ciò include una rivalutazione dell’OLP sia come organo sia come organizzazione quadro che rappresenta tutti i palestinesi, ovunque si trovino, e qualsiasi prospettiva sociale o politica abbiano. Organizzato come un vasto fronte nazionale e democratico, questa struttura sarebbe investita della massima autorità politica per guidare la nostra lotta.

Considero le nostre prospettive politiche le seguenti: a livello strategico, dobbiamo ripristinare quegli elementi del nostro programma nazionale che sono stati smantellati dalla leadership dominante dell’OLP a favore dell’opportunismo pragmatico, e ricollegare gli obiettivi storici dell’organizzazione per quanto riguarda il conflitto con quelli attuali: in sintesi, la creazione di un unico stato democratico in tutta la Palestina storica. A livello tattico, dovremmo unirci intorno ad una piattaforma comune con la componente islamista del movimento nazionale palestinese su un terreno comune, vale a dire il diritto al ritorno, all’autodeterminazione e alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come sua capitale.

La resistenza popolare viene propagandata come alternativa alla resistenza armata. C’è un conflitto tra le due? E, se sono metodi complementari, come possono essere combinati?

La lotta quotidiana del movimento dei prigionieri è parte della più ampia lotta palestinese. Chiunque abbia seguito l’attivismo popolare palestinese nel corso degli ultimi tre anni o giù di lì scoprirà che esso ha ruotato in larga parte attorno al sostegno alle battaglie del movimento nazionale dei prigionieri. E questa non è una novità – in ogni fase della nostra lotta nazionale i prigionieri hanno svolto un ruolo di primo piano e di incitamento all’azione. Quanto meno, agli uomini e alle donne del FPLP, sia nella base sia nella direzione, prometto di impegnarmi, insieme con i miei compagni del PFLP in carcere, per soddisfare le loro speranze ed aspettative, in particolare per quanto riguarda la mobilitazione del Fronte [FPLP], rafforzando la sua presenza, e il sostegno al movimento nazionale palestinese in generale.

Come dimostrato altrove dalle rivoluzioni popolari, abbracciare la resistenza popolare non significa favorire una forma di lotta ad un’altra. Confinare la resistenza popolare alla sola lotta nonviolenta svuota la resistenza del suo contenuto rivoluzionario. L’intifada palestinese è stata un modello per la resistenza popolare, oltre ad essere la nostra bussola mentre percorrevamo diverse ed efficaci forme di resistenza: pacifica, violenta, popolare, di fazione, economica, politica e culturale. Non solo la letteratura accademica rifiuta la logica di spezzare la resistenza in varie forme e metodi, ma la realtà delle sfide che il popolo palestinese si trova ad affrontare nella sua lotta contro l’occupazione israeliana esclude un approccio del genere: noi ci troviamo ad affrontare una forma globale di colonialismo di insediamento che si basa sulle forme più estreme di violenza convenzionalmente associate con l’occupazione, combinate con politiche di apartheid. E l’ostilità in cui si imbattono [i palestinesi] si estende a tutti i segmenti della nostra popolazione, ovunque si trovino.

È quindi necessaria la combinazione creativa e l’integrazione di tutti i metodi di lotta legittimi che ci permettono di impiegare qualsiasi tipo o metodo di resistenza in relazione alle condizioni specifiche delle diverse congiunture politiche. Al livello nazionale più ampio, abbiamo bisogno di un programma politico unitario che, in primo luogo, fornisca i mezzi per mettere in pratica la resistenza. Occorrono posizioni politiche e discorsi che siano allo stesso modo uniti intorno alla resistenza. Infine, abbiamo bisogno di un quadro nazionale generale reciprocamente concordato, che definisca le principali forme di resistenza che determineranno poi tutte le azioni di resistenza. Dobbiamo essere capaci di proporre questa o quella forma con particolare attenzione alle circostanze specifiche, e in base alle esigenze di una situazione o di un momento politico specifico, senza escludere alcuna forma di resistenza.

Gli inviti alla resistenza popolare nonviolenta e gli slogan sullo stato di diritto e sul monopolio dell’uso delle armi all’AP sono meri pretesti per giustificare l’attacco alla resistenza e rispondere ai dettami di sicurezza israeliani. Lo stato di diritto è privo di significato se posto in contrasto con il nostro diritto di resistere all’occupazione e se nega la logica di tale resistenza. E per quanto riguarda il monopolio dell’uso della forza, non ha senso se questa forza non è diretta contro il nemico.

Qual è la tua lettura delle rivolte arabe, e quali sono state le ripercussioni sulla causa palestinese?

Le rivolte arabe nascono in risposta alla necessità popolare di cambiamento democratico e rivoluzionario dei sistemi politici di ogni paese arabo. Sebbene questo sia il quadro generale di riferimento per comprendere queste rivoluzioni, le particolarità di ciascun paese variano, così come le conclusioni che si raggiungono. Penso che le rivoluzioni tunisina ed egiziana rientrino nel quadro sopra descritto. In ogni caso, questi cambiamenti rapidi e dinamici contraddistinti dall’azione collettiva di massa hanno spostato l’equilibrio interno del potere, inaugurando un periodo di transizione.

Altrove, condizioni analoghe hanno portato la gente a sollevarsi e a chiedere il cambiamento, ma in quei casi, gli Stati Uniti e i suoi agenti nella regione hanno compiuto notevoli sforzi per condizionare e intervenire a sostegno del “Progetto per il Nuovo Medio Oriente” degli Stati Uniti [5].Pertanto, occorre una certa precisione nel valutare le rivolte e nel trarre conclusioni. Bisogna distinguere attentamente tra i propositi e le richieste di cambiamento democratico e di giustizia sociale che rappresentano la legittima volontà delle popolazioni arabe di riappropriarsi della loro dignità, dei diritti e delle libertà, da un lato; e, dall’altro, le forze internazionali e regionali che sfruttano la potenza scatenata da questi movimenti popolari per i propri fini, fomentando efficacemente la contro-rivoluzione, come è avvenuto in Libia e in Siria.

In generale, tuttavia, le rivolte arabe hanno ampliato le prospettive di una transizione con potenziale a lungo termine. Hanno agitato ciò che una volta era stagnante, aprendo la strada a diversi possibili scenari, nessuno dei quali prevede un ritorno al passato, cosa che credo sia ormai impossibile. A mio avviso, qualsiasi movimento popolare che conduca i popoli arabi più vicini al raggiungimento delle loro libertà e dei loro diritti democratici pone le basi per una lotta fondata su principi veramente democratici e costituzionali, che sono i presupposti per una società democratica e civile. Tutti questi obiettivi sono d’importanza strategica sia per la causa nazionale palestinese sia per il progetto di un rinnovamento arabo.

Note:

[1] Letteralmente, “protezione”, in arabo.

[2] Solo i parenti di primo grado (genitori, fratelli, coniugi e figli) sono autorizzati a visitare i loro parenti in carcere.

[3] Eletto per un mandato di quattro anni, il congresso nazionale è il supremo organo di governo del FPLP. Formula e modifica la strategia, il programma del partito e il regolamento interno, discute e decide in merito ai rapporti del comitato ed elegge il comitato centrale (esecutivo).

[4] Il Documento di riconciliazione nazionale, largamente conosciuto come Documento dei prigionieri, è stato pubblicato l’ 11 maggio 2006. Redatto da detenuti palestinesi nelle carceri israeliane in rappresentanza di Hamas, Fatah, Jihad islamica, FPLP e FDLP, al fine di risolvere la faida tra Fatah e Hamas e unificare le fila palestinesi. È il documento alla che è stato alla base di ogni successivo tentativo di riconciliazione palestinese. http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/page/documento-dei-prigionieri

[5] Una neologismo usato dall’allora Segretario di Stato americano Condoleezza Rice in una conferenza stampa a Washington DC il 21 luglio 2006: “Quello che stiamo vedendo qui, in un certo senso, è la crescita – le doglie di un nuovo Medio Oriente e qualunque cosa facciamo, dobbiamo essere certi che stiamo portando avanti il nuovo Medio Oriente e non stiamo tornando al vecchio.” Vedi: Condoleezza Rice,” Briefing speciale sul viaggio in Medio Oriente e in Europa”, 21 Luglio 2006, trascrizione a cura di US Department of of State Archive, http://2001-2009.state.gov.

Pubblicato su Institute for Palestine Studies
Traduzione per Palestina Rossa a cura di Enrico Bartolomei (*)


(*) ricercatore e attivista della Campagna di solidarietà per la Palestina – Marche

 

thanks to: Palestina Rossa

MAI COMPLICI DEL SIONISMO!

Un nuovo fervore in Italia sta dando vita ad un movimento che ha scelto di costruire la solidarietà con la Palestina sostenendone la Resistenza. Questo viene testimoniato sia dalla partecipazione ai tre convegni “Dalla solidarietà alla lotta internazionalista – al fianco della Resistenza palestinese” organizzati quest’anno [1], sia dalle mille persone provenienti da tutta Italia presenti al corteo di Torino, determinate a portare in piazza le nuove parole d’ordine che creano la piattaforma di lotta elaborata dall’Assemblea Nazionale basata sul rispetto dei diritti inalienabili dei palestinesi, tra cui il ritorno dei profughi e la liberazione dei prigionieri, la fine dell’occupazione ma anche la decolonizzazione della Palestina, l’applicazione del Diritto Internazionale e la fine degli accordi di Oslo.

Su quest’ultimo, che non ha l’apparenza di un diritto in quanto tale, è necessario soffermarsi: alcuni palestinesi percorrono la strada delle trattative “convinti” che possa rappresentare per loro “una possibilità”, mentre per molti altri risulta una chiara scelta fallimentare che farà capitolare definitivamente i diritti dei palestinesi. Ciò rappresenta indubbiamente qualcosa che “divide” i palestinesi, almeno da un punto di vista di strategia di liberazione o compimento della pace. Oggi, fuori e dentro la Palestina, sono molte le testimonianze di coloro che non credono più (o non hanno mai creduto) al percorso delle cosiddette “trattative di pace”. La leadership palestinese dovrebbe leggere e capire le aspirazioni della propria gente, seguirle ed esserne ambasciatrice. A prescindere dal sempre più evidente disastro rappresentano da tali accordi – almeno in termini di Lotta di Liberazione – questi non interpretano più neanche una scelta popolare… Persistere su quella strada, quindi, significa anche dover reprimere il volere dei palestinesi.

Gli accordi di Oslo rappresentano le trattative portate avanti tra il potere occupante e una piccola parte degli occupati, selettivamente scelti tra le élite delle borghesie palestinesi, dalla stessa macchina imperiale che determina l’occupazione. L’ANP nasce come conseguenza di quegli accordi, delegittimando, di fatto, l’OLP (unico vero rappresentante di tutti i palestinesi nel mondo). Se gli Stati Uniti puniscono i palestinesi per aver richiesto all’ONU di essere riconosciuti come Stato membro [2], negando loro i fondi stanziati in termini di aiuti economici [3], allo stesso tempo sostengono a pieno regime un governo che, con la farsa della sicurezza, continua a compiere e a minacciare attacchi presenti nell’intera regione, continua a costruire insediamenti di colonizzazione [4], etc. Come possono allora gli USA essere lo sponsor di “trattative di pace”, che invece prevederebbero quanto meno una tregua della macchina da guerra ed espansionistica israeliana? La visione dello Stato è il miraggio dato ad alcuni palestinesi dallo stesso potere che ne occupa le terre e ne uccide i fratelli, uno Stato che lo stesso potere ha già deciso che mai ci sarà prima ancora di iniziare qualunque trattativa [5].

La trappola del ricatto è dietro l’angolo: anche nel caso dell’ultima tregua tra Hamas e Israele i palestinesi hanno dovuto “essere rappresentati” da qualcuno che si facesse da garante, in quel caso il “nuovo” Egitto [6], sempre alleato strategico dell’imperialismo nonostante le sue evoluzioni (da Mubarak, ai Fratelli Musulmani, alla borghesia militare). La macchina culturale sionista lavora anche per cercare di declassare e screditare i palestinesi a “popolo non in grado di rappresentarsi autonomamente”.

Oggi la Palestina attraversa un momento molto difficile, la sua economia dipende dagli aiuti stranieri che arrivano con il subdolo e non sempre evidente scopo di appoggiare la colonizzazione. La tendenza alla normalizzazione sia da parte dell’Autorità Palestinese sia da parte del governo di Gaza mina il campo della resistenza perché si riflette pericolosamente sulla popolazione, che invece dimostra ancora di voler percorrere la strada della lotta e non della resa.

Per gli stessi motivi si è scelto di manifestare in occasione dell’incontro bilaterale Italia-Israele inizialmente (e fino alle ultime due settimane a ridosso del vertice) annunciato a Torino [7]. Solo pochi giorni prima, invece, si è appresa la notizia che sarebbe stato spostato a Roma, dove il papa “finalmente” avrebbe accolto Netanyahu [8]. Per noi era un’occasione per dire che consolidare accordi con uno stato che viola impunemente il Diritto Internazionale significa macchiarsi degli stessi crimini. Il governo italiano quindi si rende complice, questo anche grazie alla scarsa opposizione e resistenza che i cittadini italiani riescono a porre nei confronti delle sue scelte, dell’occupazione e della pulizia etnica della Palestina, compiuta per mano di Israele, ma manovrata e sostenuta dalla struttura internazionale che il sionismo ha messo in piedi, di cui l’Italia è parte.

Chi ha partecipato alla manifestazione di Torino ha scelto di inserirsi in un contesto antagonista alle scelte del governo italiano sempre più fantoccio e privo di sovranità. E’ ormai evidente la direzione che sta prendendo il nostro paese, sempre più abile e coeso nel rafforzare la militarizzazione ed il controllo sulla popolazione e che trova un valido partner in Israele, paese sempre più spinto a destra verso un fascismo etnocratico e coloniale. Gli accordi tra questi due stati hanno principalmente due obiettivi: favorire le borghesie attraverso il libero scambio commerciale (proviamo ad immaginare a beneficio di chi, non certo della popolazione italiana) e usare l’Italia come ponte per l’Europa di cui Israele non è membro, ma in cui riesce a trovare modi e forme per essere sempre presente ed estendere la sua influenza anche nell’ottica di mistificare la sua immagine di paese tutt’altro che democratico.

Allo stesso modo riteniamo che anche per i palestinesi non sia il tempo di accordi o trattative, utili solo ad indebolire la resistenza palestinese e a corrodere ogni possibilità di unità del popolo nella lotta contro l’occupazione, che invece rimane l’unica via d’uscita che può e deve essere sostenuta anche a livello internazionale, da quei soggetti, governi ed interlocutori che credono nella Lotta di Liberazione della Palestina, perché battersi per i diritti, l’autodeterminazione e libertà di un popolo, non può che giovare alla libertà di tutti.

Proprio per approfondire anche questi aspetti, il primo dicembre, il giorno dopo la manifestazione, è stato tenuto sempre a Torino un Convegno/Seminario sul Sionismo [9] in cui grazie all’altissimo profilo delle relazioni e ai contributi apportati da esperti in materia di accordi tra Italia e Israele (anche attraverso minuziose ricerche che hanno rivelato le complicità e le implicazioni di intellettuali, ricercatori, politici, etc) è stato possibile sviscerare molte delle problematiche innescate da tali accordi e approfondire come questi si riflettano negativamente sulla popolazione italiana.

L’obiettivo prefissato è quello di costruire un sostegno alla Resistenza palestinese in tutte le sue forme, di contrastare e denunciare ogni fenomeno di complicità con il nemico ovunque e comunque si presenti. Su questo stiamo lavorando, nel costruire la nostra solidarietà. Il nostro lavoro passa dai convegni ma si concretizza in varie tappe: la Manifestazione che voleva portare in pizza questi contenuti c’è stata, anche se qualcuno ha provato a depistare la partecipazione dopo lo (o approfittando dello) spostamento del vertice, puntando più su un dato politico di basso profilo “essere dov’è Netanyahu” piuttosto che essere in tanti dove da mesi si stava costruendo, con il contributo di tante città italiane [10], una manifestazione nazionale che avesse dei nuovi contenuti nella scena politica italiana, ma che riscontrano ancora reazioni conservatrici da parte di coloro che non condividono questo percorso e provano a boicottarlo con ogni mezzo.

Come dicevo però, si tratta di tappe che demarcano un percorso chiaro, definito e già avviato, in sostegno alla Resistenza palestinese, che oggi ci vede impegnati anche nel sostenere la costruzione di un asilo a Gaza a cura dell’associazione Khanafani [11], perché crediamo che la resistenza passi anche attraverso la possibilità per i bambini di conoscere sin da subito un’alternativa al sistema settario di Hamas.

Altre tappe arriveranno, certi che un giorno i palestinesi scriveranno la loro storia di lotta di liberazione. A noi il dovere di sostenerli, ben sapendo che una Palestina libera farà bene a chiunque aspiri e si adoperi per un mondo più giusto.

Redazione PalestinaRossa

[1] Convegni Nazionali
.invito primo convegno:http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/dalla-solidarieta-alla-lotta-internazionalista
.report primo convegno:http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/report-convegno-dalla-solidariet%C3%A0-alla-lotta-internazionalista-fianco-della-resistenza
.invito secondo convegno:http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/event/secondo-convegno-nazionale-firenze
.report secondo convegno:http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/report-del-secondo-convegno-dalla-solidariet%C3%A0-alla-lotta-internazionalista-fianco-dell
.invito terzo convegno:http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/event/terzo-incontro-dellassemblea-nazionale-verso-la-manifestazione-del-30-novembre
.report terzo convegno:http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/report-del-terzo-convegno-dalla-solidariet%C3%A0-alla-lotta-internazionalista-fianco-della-
[2]http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=42628&typeb=0&Palestina-Stato-osservatore-LA-DIRETTA
[3]http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=21923&typeb=0&AIUTI-ESTERI-TRAPPOLA-PER-POLITICA-PALESTINESE
[4]http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=44695&typeb=0&Da-USA-no-a-condanna-Israele-per-nuove-colonie
[5]http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/non-ci-sar%C3%A0-alcuno-stato-palestinese-qa-con-linformatore-dei-palestine-papers-ziyad-cl
[6]http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/11/21/gaza-accordo-per-cessate-fuoco-tra-palestinesi-e-israele/421822/
[7]http://www.internazionale.it/news/italia-israele/2013/07/01/letta-il-2-dicembre-il-bilaterale-a-torino/
[8]http://vaticaninsider.lastampa.it/en/world-news/detail/articolo/israele-israel-israel-29903/
[9]http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/event/sionismo-antisionismo-teoria-e-prassi
[10]http://www.palestinarossa.it/?q=it/manifestazione-torino
[11]http://www.freedomflotilla.it/2013/10/22/asilo-vittorio-arrigoni-come-aiutare-a-realizzarlo/

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Pace è guerra: i negoziati, il colonialismo di insediamento israeliano e i palestinesi

Convegni di studio su “Gli accordi di Oslo – 20 anni dopo”

Roma 3 ottobre, Milano 4 ottobre, Torino 5 ottobre 2013

Relazione di Joseph Massad* a Milano e Torino

Pace è Guerra: i negoziati, il colonialismo di insediamento israeliano e i palestinesi

Fin dall’inizio del suo progetto coloniale, il sionismo ha insistito nel sostenere che avrebbe cercato di colonizzare la Palestina “pacificamente”, che la colonizzazione del paese non avrebbe danneggiato la popolazione autoctona, che invece ne avrebbe tratto beneficio. Lo stesso fondatore del movimento, Theodor Herzl, ha fornito due visioni di questo futuro, una visione pubblica romanzata, pubblicizzata nel suo romanzo utopico Altneuland, secondo la quale la Palestina sarebbe diventata uno stato ebraico che avrebbe favorito la coesistenza con gli arabi, arabi che sarebbero stati felici e grati di essere colonizzati e civilizzati dagli ebrei europei, e una strategia segreta, logistica e pratica, per espellere la popolazione araba fuori dal paese, espressa con dovizia di particolari nei suoi Diaries. Il doppio approccio di Herzl, di dichiarare intenzioni pacifiche a uso e consumo pubblico, dietro le quali cercava di nascondere la violenta strategia sionista di conquista della terra dei palestinesi sarebbe stata adottata in seguito completamente dalla politica israeliana e continua ancora oggi a esserne una pietra miliare.

In effetti, molto prima che George Orwell rendesse popolare l’espressione “guerra è pace”, nel suo romanzo del 1949, il sionismo aveva già chiaro che la sua strategia coloniale dipendeva da una deliberata e insistente confusione dei termini binari “guerra” e “pace”, in modo che ciascuno di essi si nascondesse dietro l’altro, all’interno di una stessa strategia: “pace” sarà sempre il termine usato in pubblico per indicare una guerra coloniale e “guerra”, quando diventasse necessaria e pubblica nella forma di invasioni, verrebbe definita come il mezzo principale per raggiungere l’anelata “pace.” Condurre guerra come pace è così centrale per la propaganda sionista e israeliana che l’invasione del Libano del 1982, nella quale furono uccisi 20.000 civili, fu denominata operazione “Pace in Galilea”. Guerra e pace, quindi, sono gli strumenti di un unico obiettivo strategico finale, la colonizzazione della Palestina da parte degli ebrei europei e la sottomissione e l’espulsione della popolazione nativa della Palestina.

Per portare a compimento l’espulsione dei palestinesi e la costituzione di una colonia di insediamento ebraica, Herzl cercò l’appoggio delle potenze che controllavano il destino della Palestina. Mentre i suoi assidui sforzi di corteggiare gli ottomani e di persuaderli di concedergli una possibilità sono falliti, la leadership sionista dopo di lui ha adottato la sua strategia e con successo si è assicurata l’appoggio della Gran Bretagna che si impadronì della Palestina dopo la prima guerra mondiale, come pure della clientela hashemita che la Gran Bretagna mise a capo dell’Iraq e della Transgiordania. Gli inglesi stessi si impegnarono nella loro famigerata Dichiarazione Balfour a far sì che la colonizzazione da parte degli ebrei europei della Palestina avvenisse pacificamente, sotto la loro egida, in modo che “nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebraiche in Palestina”. Dopo la seconda guerra mondiale, i sionisti si sono assicurati con successo l’appoggio statunitense al loro progetto coloniale.

Il leader sionista Vladimir Jabotinsky, seguendo la strategia di Herzl volta a garantirsi la protezione delle maggiori potenze mondiali, ha formulato come segue la posizione sionista:

La colonizzazione sionista deve o fermarsi, oppure procedere senza riguardo alla popolazione nativa. Il che significa che può procedere e svilupparsi solamente sotto la protezione di un potere indipendente dalla popolazione nativa dietro un muro di ferro che la popolazione nativa non può abbattere. Questa è la nostra politica verso gli arabi; non quella che dovrebbe essere, ma quelle che realmente è, che lo si ammetta o no. Che bisogno c’è, altrimenti, della Dichiarazione Balfour? O del Mandato? Il loro valore per noi è che il Potere esterno si è impegnato a creare nel paese condizioni di amministrazione e di sicurezza tali che se la popolazione nativa volesse contrastare il nostro lavoro, lo troverebbe impossibile.

Questo non significa che i sionisti avevano abbandonato le loro assicurazioni pubbliche che la colonizzazione “pacifica” del paese non avrebbe danneggiato i palestinesi, mentre contemporaneamente impiegavano i mezzi più violenti per espellerli dalla loro terra È stato questo impegno pubblico sionista per la “pace” con i palestinesi la cui terra cercavano di conquistare che provocò l’ira di Jabotinski. L’assunto dei leader sionisti che i palestinesi erano corruttibili, che potevano essere comprati e che avrebbero accettato la dominazione degli ebrei in cambio di benefici economici nominali, fu decostruito da Jabotinsky punto per punto. Già nel 1923, dichiarò che:

I nostri mercanti di pace stanno cercando di persuaderci che gli arabi sono o stupidi al punto che possiamo ingannarli mascherando i nostri propositi reali, o corrotti al punto da poter essere indotti con il denaro a lasciare a noi la loro rivendicazione di priorità in Palestina, in cambio di vantaggi economici e culturali. Respingo questa concezione degli arabi palestinesi. Culturalmente sono 500 anni dietro di noi, non hanno né la nostra resistenza, né la nostra determinazione; ma sono buoni psicologi come noi…Noi possiamo raccontargli qualsiasi cosa ci piaccia sulla innocenza dei nostri obiettivi, attenuandoli e addolcendoli con  parole melliflue per renderli graditi, ma loro sanno ciò che vogliamo, come noi sappiamo ciò che loro non vogliono. Essi sentono almeno lo stesso amore istintivo e geloso della Palestina, come i vecchi aztechi lo sentivano per il vecchio Messico, e i Sioux per le loro praterie ondulate.

Per Jabotinsky, il razzismo della leadership sionista la stava accecando fino a minare la sua strategia. A suo avviso nessuna quantità di denaro e nessun profluvio di parole melliflue ha mai convinto un popolo a consegnare il suo paese a conquistatori stranieri ed era, quindi, convinto che i palestinesi dovevano essere sconfitti militarmente come precondizione per la loro acquiescenza al progetto sionista di rubare il loro paese. A questo proposito ha aggiunto:

Immaginare, come fanno i nostri filo-arabi, che [i palestinesi] permetteranno
volontariamente la realizzazione del sionismo, in cambio di convenienze morali e materiali che il colono ebraico porta con sé, è una nozione puerile, che ha al fondo una sorta di disprezzo per il popolo arabo; significa che disprezzano la razza araba, che la considerano una plebaglia corrotta che può essere comprata o venduta, pronta a rinunciare alla sua patria per un buon sistema ferroviario…Non c’è nessuna ragionevolezza in queste opinioni. Può succedere che qualche arabo prenda una tangente. Ma questo non significa che il popolo arabo della Palestina, nel suo complesso, venderà quel fervente patriottismo che difendono così gelosamente e che nemmeno gli abitanti della Papuasia venderebbero mai. Ogni popolazione nativa nel mondo resiste ai colonialisti fino a quando ha la più piccola speranza di sbarazzarsi del pericolo di esserecolonizzata.

Quindi per Jabotinsky il modo appropriato e corretto di assicurarsi l’acquiescenza palestinese è quello di rimuovere qualsiasi possibilità che essi possano mai fermare la colonizzazione del loro paese o rovesciarla una volta che sia stata ottenuta. Tutto questo sarà portato avanti, innanzitutto, assicurandosi uno sponsor imperiale per la costituzione di una colonia di insediamento ebraica e creando quello che ha chiamato un “muro di ferro”, difeso da un esercito sionista che i palestinesi non siano in grado di sconfiggere. Solo allora, ha concluso, i palestinesi saranno pronti per un accordo pacifico con i loro conquistatori coloniali:

Questo non significa che non ci può essere nessun accordo con gli arabi palestinesi. Quello che è impossibile è un accordo volontario. Fino a quando gli arabi sentiranno che c’è la minima speranza di liberarsi di noi, rifiuteranno di rinunciare a questa speranza in cambio di parole gentili o di pane e burro, perché non sono una feccia, ma un popolo vivo. E quando un popolo vivo cede su questioni di carattere così vitale, questo avviene solo quando non c’è più alcuna speranza di sbarazzarsi di noi, perché non possono fare alcuna breccia nel muro di ferro. Non abbandoneranno, fino a quel momento, i loro leader estremisti il cui slogan è: “Mai”! Poi la leadership passerà a gruppi moderati che si rivolgeranno a noi con una proposta sulla quale dobbiamo entrambi concordare reciproche concessioni. Allora possiamo aspettarci che discutano onestamente le questioni pratiche, come la garanzia contro la espulsione degli arabi, o i diritti eguali per i cittadini arabi, o l’integrità nazionale araba…E quando questo accadrà, sono convinto che noi ebrei saremo pronti a dare loro garanzie soddisfacenti, affinché entrambi i popoli possano vivere insieme in pace come buoni vicini.

Le tesi di Jabotinsky avrebbero guidato tutti i settori del movimento sionista dopo di lui, compreso il Labor Sionista dominante, guidato da Ben Gurion. Come Herzl, Ben Gurion avrebbe sostenuto la pace con i palestinesi pubblicamente, affermando che gli interessi dei colonialisti e dei nativi non erano in contraddizione, ma nello stesso tempo pianificava, in modo strategico, la guerra contro i palestinesi negli incontri con la leadership sionista. Ma a guidarlo sarebbe stata la logica degli argomenti di Jabotinsky. Nel 1936, durante la grande rivolta palestinese contro la colonizzazione sionista e l’occupazione britannica, Ben Gurion dichiara:

”Non è per stabilire la pace che noi abbiamo bisogno di un accordo. Senz’altro la pace è un problema vitale per noi. È impossibile costruire un paese in uno stato di guerra permanente, ma pace è per noi un mezzo. Lo scopo finale è la completa e piena realizzazione del sionismo. Noi abbiamo bisogno di un accordo solo per questo”.

Facendo eco alle parole di Jabotinsky, Ben Gurion capiva che un accordo complessivo di pace con i palestinesi era inconcepibile negli anni ’30, quando i coloni ebraici erano ancora una minoranza armata e bellicosa nella terra dei palestinesi. E concludeva:

”soltanto dopo una totale perdita di speranza da parte degli arabi, perdita che avverrà non solo per il fallimento dei disordini e dei tentativi di rivolta, ma anche come conseguenza della nostra crescita nel paese, gli arabi accetteranno di consentire a un Israele ebraico”.

Elaborando il concetto che pace è guerra Ben Gurion spiegava in modo molto chiaro ai suoi seguaci sionisti che qualsiasi accordo con gli arabi doveva essere definito formalizzando la loro capitolazione alla colonizzazione sionista. Questo dichiarò nei primi mesi del 1949, dopo il trionfo militare dei sionisti e la costituzione di una colonia di insediamento. “L’Egitto…è un grande Stato. Se potessimo arrivare a concludere con lui la pace, sarebbe per noi una notevole conquista”. Questa “conquista” doveva aspettare 30 anni, ma quando fu realizzata con gli accordi di Camp David con Anwar Sadat nel 1978, avrebbe sancito il riconoscimento da parte dell’Egitto della legittimità della colonia d’insediamento ebraica e il rifiuto della sovranità e dei diritti dei palestinesi, a eccezione di qualche piano “autonomo” differito e il consenso dell’Egitto a non ristabilire mai la sovranità sul Sinai, che Israele avrebbe restituito a un controllo egiziano parziale senza sovranità. La “conquista” dell’Egitto, della quale Ben Gurion parlò nel 1949, fu completata
a Camp David. In quel momento i palestinesi, rappresentati dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), non avevano ancora accettato formalmente il fatto che la colonizzazione del loro paese fosse irreversibile e continuarono a tentare la sua liberazione dal colonialismo ebraico europeo.Il concetto di pace come mezzo per ottenere maggiori conquiste coloniali ha continuato a essere radicato nelle considerazioni sioniste e sarebbe stato perseguito insieme alla guerra convenzionale, anche dopo Camp David, come è dimostrato dalle numerose invasioni del Libano negli anni ’70, ’80, ’90 e nel nuovo secolo. Anche se queste guerre sono state condotte esplicitamente come parte della ricerca israeliana di “pace” per conseguire i suoi obiettivi coloniali. La convocazione statunitense della “conferenza di pace” del 1991 a Madrid, alla quale furono invitati Israele e tutti i protagonisti arabi, escludendo l’OLP, non avrebbe inaugurato una nuova fase nella strategia israeliana, formalizzata nel suo nuovo approccio a partire dal 1977 – in particolare concludendo accordi di “pace” con leader arabi e palestinesi che, nelle parole di Jabotinsky, avevano “rinunciato alla speranza”, si erano arresi completamente al colonialismo ebraico, e avevano promesso non solo di non resistere a Israele, ma di aiutarlo mentre continuava la guerra contro gli arabi e contro i palestinesi che continuavano a resistere alla logica coloniale del sionismo.

Anche per il cosiddetto “processo di pace” a guida statunitense, che era stato inaugurato dopo la guerra del 1973, il governo degli Stati Uniti, rappresentato dal Segretario di Stato Henry Kissinger, avrebbe completamente adottato il modello di Jabotinsky. Il piano di Kissinger, che avrebbe condotto in pochi anni alla resa dell’Egitto a Camp David, era quello di coinvolgere eventualmente l’OLP nei negoziati di “pace” alla fine, in modo che l’organizzazione sarebbe stata invitata solo dopo che Egitto, Giordania e Siria avessero riconosciuto e accettato l’irreversibilità della colonia d’insediamento ebraica. Kissinger dichiarò: ”Noi abbiamo bisogno di tenerli (l’OLP) sotto controllo e di coinvolgerli solo alla fine del processo”. Riconoscendo che l’OLP degli anni ’70, che già allora voleva cedere su molti dei diritti del popolo palestinese, non era ancora pronto a rassegnarsi completamente alla irreversibilità della colonizzazione di insediamento ebraica, Kissinger aggiunse: ”Noi (ora) non possiamo accettare la minima richiesta dell’OLP, allora perché parlare con loro?” Kissinger spiegò che “il riconoscimento avverrà solo dopo che i governi arabi saranno soddisfatti.” Mentre gli Stati Uniti non potevano concedere il minimo all’OLP negli anni ’70, Israele ne sarebbe stato capace negli anni ’90.

È in questo scenario che venti anni fa l’OLP si arrese completamente a Israele e accettò la colonizzazione della Palestina, in quelli che sono noti come gli Accordi di Oslo. L’abbandono della lotta anti-coloniale sarebbe stata prima formalizzata con la dissoluzione ufficiosa dell’OLP, in particolare nella parte del suo nome “Liberazione”, e il suo riemergere come Autorità Nazionale Palestinese, una autorità che non cercava più di liberare nulla, ancor meno di offrire una qualche resistenza al colonialismo. Invece l’ANP avrebbe offerto i suoi servizi a Israele collaborando con le sue forze nel sopprimere qualsiasi resistenza palestinese alla colonizzazione ebraica, cercando da Israele garanzie per un minimo di privilegi che potessero mantenerli al potere.

L’ANP, in verità, ha dimostrato di essere un collaboratore di Israele molto più di quanto Jabotinsky avesse pensato fosse possibile. Jabotinsky aveva proposto che dopo essersi rassegnati alla loro sconfitta, i leader palestinesi che chiedevano la liberazione completa sarebbero stati cacciati e “la leadership passerà a gruppi moderati che si rivolgeranno a noi con una proposta sulla quale dobbiamo entrambi concordare reciproche concessioni. Allora possiamo aspettarci che discutano onestamente le questioni pratiche, come la garanzia contro la espulsione degli arabi, o i diritti eguali per i cittadini arabi, o l’integrità nazionale araba…”. L’ANP, come tutti sanno, non ha mai fatto queste richieste, ha abbandonato completamente i cittadini palestinesi di Israele, che non sono stati mai menzionati a Oslo e ha anche fatto la sua parte nello spostare i palestinesi in Cisgiordania a vantaggio dei progetti di costruzione sponsorizzati da uomini d’affari palestinesi, mentre acconsentiva a nuovi spostamenti di palestinesi dalla loro terra, nuovi, come ad esempio nella Valle del Giordano. Per quanto riguarda l’“integrità nazionale”, l’ANP non ha mai rivendicato di averne una, ancor meno di chiedere a Israele che la garantisse. Le aspettative di Jabotinsky sono state pessimistiche rispetto alla resa dei palestinesi, in particolare sul fatto che “noi non possiamo offrire adeguate compensazioni agli arabi palestinesi per il ritorno in Palestina. E quindi non c’è nessuna probabilità che un accordo volontario possa essere raggiunto. Così tutti coloro che vedono tale accordo come una condizione sine qua non per il sionismo, possono dire “no” e ritirarsi dal sionismo”. Contrariamente al pessimismo di Jabotinsky, tuttavia, e come parte degli accordi di Oslo, una somma consistente di compensazione finanziaria fu offerta e senz’altro accettata dall’ANP in cambio della Palestina. La somma ammonta finora a 23 miliardi di dollari, ma molto di più sta per arrivare.

Come ho affermato al tempo della firma di Oslo, la formula di Israele per un accordo di pace, in particolare “terra per pace” che l’OLP aveva accettato,

pregiudica l’intero processo di pace presupponendo che Israele abbia “terra” che vorrebbe concedere agli “arabi”, e che gli “arabi”, visti come responsabili dello stato di guerra con Israele, possano garantire a Israele la pace per la quale da lungo tempo si è aspettato…questa formula è in effetti un riflesso dei punti di vista razziali che caratterizzano gli israeliani (ebrei europei), i palestinesi e gli altri arabi. Mentre gli israeliani sono stati richiesti e sono ostentatamente presentati come desiderosi di negoziare sulla proprietà, il diritto borghese occidentale per eccellenza, i palestinesi e gli altri arabi sono stati invitati a rinunciare alla violenza – o più precisamente ai “loro” mezzi violenti – che è un diritto illegittimo e non riconosciuto, attribuibile solo a barbari incivili.

Spiegai allora che gli Accordi di Oslo consistevano in quel che segue:

Israele continuerà a controllare la terra, le acque, i confini, l’economia, gli insediamenti ebraici, in breve, tutto quello che ha cercato di controllare, senza la resistenza palestinese e con la sua necessaria soppressione, che potrebbe causare la possibile morte di ragazzi ebrei durante il processo. L’OLP si è impegnata a non permettere questa resistenza. I ragazzi palestinesi dovrebbero uccidere loro i ragazzi e le ragazze palestinesi che i ragazzi ebrei di Israele dovrebbero uccidere, rischiando anche loro nel processo. Nel frattempo, gli israeliani ricorderanno al mondo che le loro precedenti campagne di assassinio contro i palestinesi devono essere giustificate, visto che, ora, i palestinesi stessi riconoscono la necessità di controllare una popolazione selvaggia e recalcitrante.

In linea con Jabotinsky e Ben-Gurion, il ministro degli esteri israeliano in quel periodo, ora presidente di Israele, Shimon Peres hanno riconosciuto che quando Israele alla fine ha riconosciuto l’OLP come il rappresentante dei palestinesi, lo fece perché l’OLP non cercò più di rovesciare il colonialismo ebraico. Ha correttamente dichiarato: “Noi non siamo cambiati, è l’OLP che è cambiata”.

A partire da Oslo, la colonizzazione ebraica della West Bank e di Gerusalemme Est è raddoppiata, ma se escludiamo Gerusalemme Est, che fu annessa a Israele formalmente nel 1980, la colonizzazione ebraica della West Bank, da Oslo, si è nei fatti triplicata. Questo triplicarsi della colonizzazione è avvenuto pacificamente, sotto l’ombrello di Oslo. Ogni tentativo palestinese di impedirla, sia durante la seconda intifada, o attraverso il successo elettorale di Hamas, o atti giornalieri di resistenza contro l’esercito israeliano, sarebbe stato impedito da Israele e dalla ANP. Nel caso di Hamas, la sua repressione sarebbe stata molto intensificata con la collaborazione del regime di Mubarak in Egitto, e più recentemente con il colpo di stato quasi-fascista del generale Sisi.

Con la strategia “pace è guerra” Israele ha pure cercato di cambiare il vocabolario usato per descrivere il suo progetto coloniale, insistendo che i palestinesi devono sottomettersi alla sua terminologia, che i media USA e europei usano per descrivere il colonialismo sionista.

Nella storia delle guerre coloniali e della resistenza anti-coloniale, specialmente nel contesto delle colonie di insediamento, le lotte dei nativi contro i colonizzatori europei sono sempre state denominate lotte di “liberazione”. Esempi: la lotta di liberazione algerina contro il colonialismo e i colonialisti francesi, la lotta di liberazione del popolo dello Zimbabue contro il colonialismo e i colonialisti britannici, e la lotta anti-apartheid per la liberazione nel Sudafrica contro i privilegi razziali dei colonizzatori bianchi. In nessuno di questi casi la lotta di liberazione dal colonialismo è stata indicata, in un modo o nell’altro, come un “conflitto”. Di certo non c’è mai stata una cosa come il “conflitto” franco-algerino, o un “conflitto” bianchi-neri in Rhodesia o in Sudafrica, nemmeno per gli stessi colonizzatori. In questi casi, sia i colonizzatori di insediamento sia coloro che resistevano non si vergognavano chiamando la loro lotta come una lotta per il privilegio razziale e coloniale o rispettivamente per la liberazione dal razzismo e dal colonialismo di insediamento. Questa terminologia dovrebbe applicarsi al colonialismo di insediamento sionista in Palestina e alla resistenza palestinese. Il progetto della colonizzazione ebraica europea della Palestina, che iniziò negli anni 1880, e che da allora è continuato, resta il fatto più spettacolare dell’incontro palestinese con il sionismo, ma allo stesso tempo è il segreto più strenuamente conservato. Al punto che riferirsi a Israele come il “colonizzatore di insediamento ebraico”, in Israele o in Europa o negli USA, pro-israeliane (che è come i palestinesi e gli arabi lo hanno sempre descritto), è un tabù che non si può rompere e che suscita un’ampia condanna in quei rari casi in cui viene rotto. Infatti, non solo la colonizzazione europea e ebraica della Palestina è stata ridenominata dal sionismo e dai suoi alleati europei e americani come il cosiddetto “conflitto” israelo-palestinese, ma il sionismo ha insistito affinché i palestinesi e gli arabi adottassero questa terminologia come una precondizione per qualsiasi tipo di “dialogo”, e una minima accettazione come partner per un “dialogo” o per negoziati di “pace”.

Il sionismo comprende che vive in un mondo dove il colonialismo, e certamente il colonialismo di insediamento, non sono più molto di moda, e allora questa ridenominazione è centrale per la sua propaganda. I palestinesi hanno capito bene la strategia di Israele e hanno continuato apertamente a insistere nella loro terminologia di liberazione. L’organizzazione palestinese che ha rappresentato la resistenza palestinese fino al 1993 si è chiamata Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i suoi gruppi di guerriglia costituenti si sono chiamati Movimento per la Liberazione della Palestina (conosciuto con il suo acronimo Fateh), Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina o Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, tutti hanno compreso che il loro incontro con il sionismo era quello con un colonialismo di insediamento, e con le sue strutture razziste, contro il quale insistono nel resistere per rovesciarlo. Dopo il 1993, l’OLP si è trasformata nell’Autorità Nazionale Palestinese, che non solo ha stabilito come nuovo obiettivo della leadership palestinese la creazione di una “autorità nazionale” al posto della liberazione della Palestina e dei palestinesi dal colonialismo di insediamento; la stessa parola colonialismo è anche scomparsa dal suo vocabolario. La nuova definizione del colonialismo ebraico europeo come un conflitto israelo-palestinese che dovrebbe essere “risolto” con un “accordo di pace” tramite negoziati, divenne operativa attraverso l’offensiva di “pace”, che Israele ha condotto contro il popolo palestinese nel 1991.Venti anni di negoziati di “pace” hanno portato più colonialismo, più furto di terre palestinesi, più morti di palestinesi, più povertà palestinese, più restrizioni nei movimenti dei palestinesi, più disoccupazione, in breve più oppressione su ogni fronte. Ancora, la ANP continua a dichiarare senza equivoco che riconosce il diritto degli ebrei di colonizzare la Palestina e di stabilire una colonia di insediamento ebraica sulle terre che i sionisti hanno conquistato nel 1948, così come i diritti di quegli stessi ebrei come coloni di insediamento nella West Bank e a Gerusalemme Est conquistate nel 1967. Quello che chiede, tuttavia, è che gli israeliani non aumentino il numero esistente di coloni ebraici nella West Bank (ma non a Gerusalemme Est) e che uno stato tipo Bantustan si formi per consentire alla ANP di governare i palestinesi senza sovranità. Gli israeliani sono sgomenti per queste condizioni e continuano a spingere affinché la ANP dichiari apertamente e senza equivoci che qualsiasi accordo Israele concederà ai leader dell’ANP, nella forma di uno “stato” Bantustan, le
condizioni di Israele sono comunque che i palestinesi devono accettare non solo il diritto dei coloni ebrei esistenti di continuare a colonizzare tutte le parti della Palestina, ma anche i loro diritti futuri di colonizzare più terra, altrimenti, insistono gli israeliani, non ci sarà alcun accordo.

Naturalmente, Israele insiste che continuerà, nel frattempo, a perseguire la “pace” per convincere la leadership della ANP dell’importanza della loro piena acquiescenza al suo progetto coloniale complessivo. Gli attuali negoziati segreti tra Israele e la ANP mirano a escogitare un piano nel quale la ANP e Israele trovino la giusta formula per arrivare a questa acquiescenza, in modo che la colonizzazione ebraica dell’intera terra dei palestinesi sarà finalmente sostenuta e celebrata dagli stessi palestinesi e la centenaria guerra del sionismo contro il popolo palestinese sarà finalmente vinta sotto lo striscione della “pace”.L’unico problema è che il popolo palestinese si rifiuta di essere acquiescente con il progetto coloniale sionista, in quanto non ha rinunciato alla speranza, ma rimane fiducioso che la colonizzazione della sua terra è reversibile e che la sua resistenza condurrà a una sua fine, a dispetto degli accordi conclusi dalla loro leadership collaborazionista e della conduzione, da parte di Israele, della pace come guerra.

* Joseph Massad insegna alla Columbia University e scrive sulla politica araba moderna e sulla storia intellettuale. Ha un interesse speciale nelle teorie dell’identità e della cultura – incluse le teorie del nazionalismo, sessualità, razza e religione. Ha ricevuto il suo Ph.D. dalla Columbia University nel 1998. È autore di Desiring Arabs (2007), di The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinian Question (2006) e di Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan (2001). Il suo libro Daymumat al-Mas’alah al-Filastiniyyah è stato pubblicato da Dar Al-Adab nel 2009, e La persistence de la question palestinienne da La Fabrique nel 2009. I suoi articoli sono apparsi in Public Culture, Interventions, Middle East Journal, Psychoanalysis and History, Critique e nel Journal of Palestine Studies; scrive spesso per Al-Ahram Weekly. Tiene corsi sulla cultura araba moderna, di psicoanalisi in relazione alla civilizzazione e alla identità, su genere e sessualità nel mondo arabo e sulla società e la politica israelo-palestinesi, con seminari sul nazionalismo in Medio Oriente come idea e pratica e anche su Orientalismo e Islam.

Per altri interventi di Joseph Massad vedi il dossier all’indirizzo www.ism-italia.org/?p=3658: L’(Anti-) Autorità Palestinese, Al-Ahram Weekly, giugno 2006

Pinochet in Palestina, Al-Ahram Weekly, novembre 2006
Un’immacolata-concezione?, The Electronic Intifada, 14 aprile 2010
I diritti di Israele, Aljazeera, 6 maggio 2011
L’ultimo dei semiti, Aljazeera, 14 maggio 2013

(traduzione a cura di ISM-Italia)

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L’illusione di Oslo: a vent’anni dagli accordi, un contributo di Adam Hanieh

[Adam Hanieh è un compagno, docente alla Scuola di Studi Africani e Orientali dell’Università di Londra, autore di numerosi contributi sulla questione palestinese pubblicati in importanti riviste. In occasione del ventennale degli accordi di Oslo ha pubblicato, sul magazine online Jacobin, un’interessante riflessione si ciò che Oslo ha comportato e sul da farsi, che abbiamo ritenuto utile tradurre in italiano. L’originale è qui]

Quest’anno cade il ventesimo anniversario dalla firma degli accordi di Oslo tra l’OLP e il governo israeliano. Ufficialmente conosciuti come la Dichiarazione di Principi sugli accordi di autogoverno provvisorio, gli accordi di Oslo erano fortemente connessi al quadro della soluzione dei due stati, dichiarando “la fine di decenni di confronto e conflitto, il riconoscimento della “mutua legittimità e dei diritti politici” e l’obiettivo di ottenere “ la coesistenza pacifica, la mutua dignità e sicurezza e… un accordo di pace semplice, definitivo e di buon senso.

I suoi sostenitori sostenevano che con Oslo Israele avrebbe gradualmente lasciato il controllo dei territori nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, con la neonata Autorità Palestinese incaricata di formare uno Stato indipendente lì. Il processo di negoziato, e il conseguente accordo tra OLP e Israele, invece aprì la strada alla situazione attuale nella Cisgiordania e a Gaza. L’AP, che ora governa su circa 2,6 milioni di Palestinesi in Cisgiordania, è diventata la chiave di volta della strategia politica palestinese. Le sue istituzioni hanno tratto legittimità internazionale da Oslo, e il suo invocato obiettivo di costruire uno Stato Palestinese indipendente rimane sepolto nello stesso quadro. Gli incessanti richiami per un ritorno ai negoziati – fatti da USA e leader europei quasi ogni giorno – riportano ai principi elaborati nel Settembre del 1993.

Dopo due decenni, è ora normale sentir parlare di Oslo come di un “fallimento” dovuto alla perdurante realtà dell’occupazione israeliana. Il problema con questo assunto è che confonde gli obiettivi dichiarati di Oslo con quelli reali. Dal punto di vista del governo israeliano, l’obiettivo di Oslo non era terminare l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, oppure affrontare questioni sostanziali sull’esproprio palestinese, ma qualcosa di molto più funzionale. Creando la percezione che i negoziati avrebbero portato ad una sorta di “pace”, Israele fu abile a dipingere le proprie intenzioni come quelle di un partner piuttosto che di un nemico della sovranità palestinese.

Sulla base di questa percezione, il governo israeliano ha usato Oslo come una foglia di fico per coprire il suo consolidato e profondo controllo sulla vita palestinese, utilizzando gli stessi meccanismi strategici sperimentati dai tempi dell’occupazione del 1967. Costruzione di insediamenti, restrizioni ai movimenti dei Palestinesi, carcerazioni di migliaia di persone, controllo sulle frontiere e sulla vita economica: tutto teso a formare un complesso sistema di controllo. Un Palestinese può presiedere all’amministrazione del quotidiano degli affari palestinesi, ma il potere definitivo resta nelle mani di Israele. Questa struttura ha raggiunto il suo apice nella Striscia di Gaza, dove oltre 1,7 milioni di persone sono costrette in una piccola enclave con l’entrata e l’uscita di beni e persone fortemente determinata dai diktat israeliani.

Oslo ha avuto anche un pericoloso effetto politico. Riducendo la lotta palestinese a un baratto di piccoli pezzi di terra in Cisgiordania e nella Striscia, Oslo ha ideologicamente disarmato la non insignificante parte del movimento politico palestinese che invocava la resistenza a oltranza contro il colonialismo israeliano e auspicava il genuino soddisfacimento delle aspirazioni palestinesi. La più importante di queste aspirazioni era la richiesta del diritto al ritorno per i profughi palestinesi espulsi nel 1947 e nel 1948, Oslo ha reso il confronto su questi temi sciocco e irrealistico, normalizzando un deludente pragmatismo piuttosto che affrontando le radici fondative dell’esilio palestinese. Fuori dalla Palestina, Oslo ha fatalmente indebolito l’estesa solidarietà e simpatia con la lotta palestinese costruita durante gli anni della prima Intifada, rimpiazzando l’orientamento al supporto collettivo con la fede nei negoziati guidati dai governi occidentali. I movimenti di solidarietà ci hanno messo un decennio per ricompattarsi.

Così come ha indebolito il movimento palestinese, Oslo ha aiutato a rafforzare la posizione regionale di Israele. La percezione illusoria che Oslo avrebbe portato alla pace permise ai governi Arabi, guidati dalla Giordania e dall’Egitto, di stringere accordi economici e politici con Israele sotto gli auspici americani ed europei. Israele fu così abile a liberarsi dal boicottaggio arabo, il cui costo è stato stimato in circa 40 miliardi di dollari dal 1948 al 1994. Ancora più significativamente, una volta che Israele è stata tirata fuori dal congelatore, fondi internazionali hanno potuto investire nell’economia israeliana senza paura di attirare il boicottaggio secondario da parte dei partner economici arabi. In tutti questi modi, Oslo ha rappresentato lo strumento ideale per fortificare il controllo israeliano sui Palestinesi e simultaneamente rafforzare la propria posizione con il Medio Oriente allargato. Non c’è stata contraddizione tra il supporto al “processo di pace” e il rafforzamento della colonizzazione – il primo fortemente perseguito per rafforzare la seconda.

E’ importante ricordare che dietro il clamore delle star internazionali per Oslo – coronato dal premio Nobel per la pace vinto congiuntamente dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il ministro degli esteri Shimon Peres e il leader dell’OLP Yasser Arafat nel 1994 – un pugno di voci perspicaci aveva previsto la situazione che affrontiamo oggi. Degno di nota tra di loro fu Edward Said, che scrisse molto contro Oslo, commentando che firmarlo mostrava “il degradante spettacolo di Yasser Arafat che ringraziava chiunque per la sospensione della maggior parte dei diritti del suo popolo, e la fatua solennità della performance di Bill Clinton, che come un imperatore romano del ventesimo secolo accompagnava due re vassalli attraverso rituali di riconciliazione e obbedienza”. Descrivendo l’accordo come “uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese”, Said sottolineò che l’OLP sarebbe diventato “un rinforzo di Israele”, aiutando Israele ad approfondire il suo dominio economico e politico dei Territori Palestinesi e consolidando “uno stato di dipendenza permanente”. Al di là del fatto che analisi come quella di Said sono importanti da richiamare semplicemente per la loro notevole preveggenza e come contrappunto alla costante mitizzazione del fatto storico, esse sono particolarmente significative oggi dal momento che tutti i leader mondiali continuano a giurare fedeltà ad un chimerico “processo di pace”.

Una questione che spesso resta inaffrontata nell’analisi di Oslo e della strategia dei due stati è perché la leadership palestinese installatasi in Cisgiordania sia stata così volenterosamente complice di questo progetto disastroso. Troppo spesso la spiegazione è essenzialmente tautologica – qualcosa di simile a “la leadership palestinese ha preso cattive decisioni perché sono leader di scarso valore”. Il dito è spesso puntato sulla corruzione, o sulle difficoltà del contesto internazionale che limiterebbero il numero delle opzioni disponibili. Ciò che manca da questo tipo di spiegazioni è un fatto schietto: alcuni Palestinesi hanno un grosso vantaggio nella continuazione dello status-quo. Negli ultimi due decenni, l’evoluzione del ruolo di Israele ha prodotto cambiamenti profondi nella natura della società palestinese. Questi cambiamenti sono stati concentrati in Cisgiordania, alimentando una base sociale che sostiene la traiettoria politica della leadership palestinese nel suo desiderio di abbandonare il diritto al ritorno dei Palestinesi per essere incorporati nelle strutture del colonialismo israeliano. È questo processo di trasformazione socioeconomica che spiega la sottomissione della leadership palestinese a Oslo e pone la necessità di una rottura radicale con la strategia dei due stati.

La base sociale di Oslo e la strategia dei due stati

Il dispiegarsi del processo di Oslo è stato ultimamente plasmato dalle strutture di occupazione messe in essere da Israele nei decenni precedenti. Durante questo periodo, il governo Israeliano ha lanciato una campagna sistematica per confiscare la terra palestinese e costruire insediamenti nelle aree dalle quali i Palestinesi sono stati cacciati durante la guerra del 1967. La logica di questi insediamenti era incarnata nei due maggiori piani strategici, il Piano Allon (1967) e il Piano Sharon (1981). Entrambi questi piani prevedevano di stabilire gli insediamenti israeliani tra i principali centri abitati palestinesi e sopra sorgenti d’acqua e terre fertili per l’agricoltura. Una rete di strade tutta israeliana avrebbe poi connesso questi insediamenti l’uno all’altro e anche alle città israeliane fuori dalla Cisgiordania. In questo modo, Israele ha potuto sequestrare terre e risorse, dividere i Territori Palestinesi tra di loro e evitare la responsabilità diretta per la popolazione palestinese quanto più fosse possibile. L’asimmetria del controllo israeliano e palestinese sulla terra, le risorse e l’economia ha significato che i contorni della formazione dello Stato Palestinese erano completamente dipendenti dal disegno israeliano.

Combinato con le restrizioni militari agli spostamenti dei contadini palestinesi e al loro accesso all’acqua e ad altre risorse, le massicce ondate di confisca di terre e costruzione di insediamenti durante i primi due decenni di occupazione hanno trasformato la proprietà fondiaria palestinese e i modi di riproduzione sociale. Dal 1967 al 1974, l’ammontare di terra coltivata palestinese in Cisgiordania è scesa di circa un terzo. L’esproprio di terra nella valle del Giordano da parte dei coloni israeliani ha significato che l’87% di tutta la terra irrigata in Cisgiordania è stata sottratta ai Palestinesi. I militari impedivano l’apertura di nuovi pozzi per scopi agricoli e restringevano l’uso di acqua da parte dei Palestinesi, mentre i coloni israeliani erano incoraggiati a usare più acqua del necessario.

Con questa deliberata distruzione del settore agricolo, i più poveri tra i Palestinesi, particolarmente i giovani – hanno abbandonato le aree rurali e si sono ricollocati nelle costruzioni e nel settore agricolo in Israele. Nel 1970, il settore agricolo includeva oltre il 40% della forza lavoro della Cisgiordania. Dal 1987 questa percentuale è scesa al 26%. L’agricoltura palestinese è scesa dal 35% al 16% del PIL tra il 1970 e il 1991.

Nel quadro stabilito dagli accordi di Oslo, Israele ha incorporato senza soluzione di continuità questi cambiamenti in Cisgiordania in un completo sistema di controllo. La terra palestinese è stata gradualmente trasformata in un patchwork di enclavi isolate, con i tre aggregati principali nel nord, centro e sud della Cisgiordania divisi l’uno dall’altro da blocchi di insediamenti. All’AP è stata garantita una limitata autonomia nelle aree dove la maggior parte dei Palestinesi viveva (le cosiddette aree A e B), ma gli spostamenti tra queste aree potevano essere interdetti in ogni momenti dall’esercito israeliano. Tutti i movimenti da e vero le aree A e B, così come la determinazione dei diritti di residenza in queste aree, erano sotto l’autorità israeliana. Israele controllava anche la grande maggioranza delle fonti acquifere, tutte le risorse del sottosuolo e tutto lo spazio aereo della Cisgiordania. I Palestinesi si sono così affidati alla discrezione israeliana per la loro acqua e i rifornimenti energetici.

Il controllo completo di Israele sulle frontiere, codificato nei protocolli di Parigi sulle relazioni economiche tra AP e Israele del 1994, ha significato che era impossibile per l’economia palestinese sviluppare significative relazioni commerciali con un paese terzo. Il Protocollo di Parigi ha dato a Israele la parola definitiva su ciò che l’AP poteva o non poteva importare e esportare. La Cisgiordania e la Striscia di Gaza divennero così fortemente dipendenti dai beni importati, con un tasso totale di import tra il 70% e l’80% del PIL. Dal 2005, l’Ufficio centrale di Statistica Palestinese ha stimato che il 74% di tutte le importazioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza venivano da Israele mentre l’88% delle esportazioni erano destinate a Israele.

Senza una reale base economica, l’AP era completamente dipendente dai flussi di capitale straniero, sotto forma di aiuti o prestiti, che erano sempre sotto controllo israeliano. Tra il 1995 e il 2000, il 60% delle entrate dell’AP veniva da tasse indirette raccolte dal governo israeliano sui beni importati dall’estero e destinati ai territori occupati. Queste tasse erano riscosse dal governo israeliano e poi trasferite all’AP ogni mese secondo un processo delineato dal Protocollo di Parigi. L’altra fonte principale di denaro dell’AP veniva dagli aiuti di USA, UE, paesi Arabi. Per questi motivi, le percentuali di aiuti sul PIL indicavano che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza erano tra le regioni più dipendenti dagli aiuti stranieri del mondo.

Cambiare la struttura del lavoro

Questo sistema di controllo ha generato due cambiamenti principali nella struttura socioeconomica della società palestinese. Il primo di questi è collegato alla natura del lavoro palestinese, che è diventato sempre più un rubinetto che può essere aperto o chiuso d’accordo con la situazione economica e politica e le esigenze del capitale israeliano. Iniziando nel 1993, Israele ha scientemente lavorato per sostituire la forza lavoro palestinese che veniva quotidianamente dalla Cisgiordania con lavoratori stranieri dall’Asia e dall’Europa dell’Est. Questa sostituzione è stata parzialmente consentita dalla minore importanza dell’edilizia e dell’agricoltura dal momento che l’economia israeliana ha abbandonato questi settori nel 1990 per andare verso l’industria dell’hi-tech e l’esportazione di capitale finanziario.

Tra il 1992 e il 1996, la forza lavoro palestinese in Israele è passata da 116000 lavoratori (il 33% della forza lavoro palestinese) a 28100 lavoratori (il 6% della forza lavoro palestinese. I guadagni derivanti dal lavoro in Israele sono crollati dal 25% del PNL nel 1992 al 6% del 1996. Tra il 1997 e il 1999, una svolta nell’economia israeliana ha visto il numero assoluto di lavoratori palestinesi risalire all’incirca al livello pre 1993, ma la proporzione della forza lavoro palestinese impiegata in Israele era senza dubbio circa la metà di quanto era stata un decennio prima.

Invece di lavorare dentro Israele, i Palestinesi sono diventati sempre più dipendenti dall’impiego nel settore pubblico dell’AP o dai trasferimenti di denaro fatti dall’AP alle famiglie di prigionieri, martiri, o ai bisognosi. Il pubblico impiego assomma a un quarto del totale in Cisgiordania e nella Striscia dal 2000, un livello che è già quasi il doppio rispetto al 1996. Più della metà delle spese dell’AP erano per gli stipendi degli impiegati pubblici. Il settore privato copre pure una fetta sostanziale dell’impiego, in particolare nel settore dei servizi. Questi sono largamente dominati da piccole imprese a gestione familiare – oltre il 90% delle imprese private palestinesi impiega meno di dieci persone – come risultato di decenni di politiche israeliane di depotenziamento.

Il Capitale e l’Autorità Palestinese

Oltre alla crescente dipendenza delle famiglie palestinesi dall’impiego o dai pagamenti dal parte dell’AP, la seconda grande ragione della trasformazione socioeconomica della Cisgiordania è collegata alla natura della classe capitalista palestinese. In una situazione di produzione locale debole e di dipendenza estremamente alta dalle importazioni e dagli afflussi di capitale straniero, il potere economico della classe capitalista palestinese in Cisgiordania non è derivato dall’industria locale, ma piuttosto dalla vicinanza all’AP come fonte principale di afflussi di capitale. Attraverso gli anni di Oslo, questa classe è venuta fuori dalla fusione di tre distinti gruppi sociali: capitalisti “rientrati”, principalmente borghesia palestinese emersa nei paesi del Golfo con forti collegamenti con l’AP; famiglie e individui che hanno storicamente dominato la società palestinese, spesso grandi proprietari terrieri del periodo pre-1967, particolarmente nelle zone nord della Cisgiordania; infine quelli che hanno provato ad accumulare benessere attraverso la loro posizione di interlocutori con l’occupazione dal 1967.

Mentre le appartenenze a questi tre gruppi si sono considerevolmente sovrapposte, il primo è stato particolarmente significativo per la natura dello Stato e la formazione della classe in Cisgiordania. I flussi finanziari provenienti dal Golfo hanno a lungo giocato un ruolo importante nel moderare gli aspetti più radicali del nazionalismo palestinese; ma la loro congiunzione con il processo di costruzione dello Stato avviato ad Oslo ha radicalmente approfondito le tendenze alla statizzazione e alla burocratizzazione del progetto nazionale palestinese stesso. Questa nuova configurazione tripartita della classe capitalista tendeva a ricavare il suo benessere da una relazione privilegiata con l’AP, che ha assistito alla sua crescita garantendo i monopoli per beni come il cemento, il petrolio, la farina, l’acciaio e le sigarette; concedendo esclusivi permessi di importazione ed esenzioni personalizzate; dando diritti esclusivi per la distribuzione di beni in Cisgiordania e nella Striscia; distribuendo infine terra di proprietà governativa al di sotto del suo valore. In aggiunta a queste forme di accumulazione assistite dallo Stato, la maggior parte degli investimenti che sono arrivati in Cisgiordania da donatori stranieri duranti gli anni di Oslo – costruzione di infrastrutture, nuovi progetti edilizi, sviluppo turistico e agricolo – erano normalmente connessi in qualche modo con questa nuova classe di capitalisti.

In questo contesto la posizione totalmente subordinata dell’AP, la possibilità di accumulare è stata sempre legata al consenso di Israele e ciò ha avuto un prezzo politico – calcolato per comprare il consenso con la perdurante colonizzazione e con la resa forzata. Ciò ha anche significato che le componenti chiave dell’élite palestinese – i ricchi uomini d’affari, la burocrazia statale dell’AP e i resti della stessa OLP, sono arrivati a condividere un interesse comune nel progetto politico israeliano. La crescita rampante del clientelismo e della corruzione sono stati la logica conseguenza di questo sistema, come una sorta di sopravvivenza individuale dipendente dalle relazioni personali con l’AP. La corruzione sistemica dell’AP che Israele e i governi occidentali hanno regolarmente lamentato tra gli anni ’90 e il nuovo millennio fu, in altre parole, una conseguenza necessaria e inevitabile del reale sistema che queste potenze hanno stabilito.

La svolta neoliberista

Queste due principali caratteristiche della struttura di classe palestinese – una forza lavoro dipendente dall’impiego nell’AP, una classe capitalista legata a doppio filo al potere di Israele e alle istituzioni della stessa AP – hanno continuato a caratterizzare la società palestinese in Cisgiordania nel primo decennio del XXI secolo. La divisione della Cisgiordania e della Striscia tra Fatah e Hamas nel 2007 ha rafforzato questa struttura, con la Cisgiordania soggetta ad ancora più complesse restrizioni di movimento e controllo economico. Contemporaneamente, Gaza si è sviluppata in una direzione diversa, con il potere di Hamas derivante dai profitti ricavati dal commercio attraverso i tunnel e gli aiuti da stati come il Qatar e l’Arabia Saudita.

In anni recenti, tuttavia, c’è stato un importante cambiamento nella traiettoria economica dell’AP, incarnato in un programma fortemente neoliberista basato sull’austerity nel pubblico impiego e su un modello di sviluppo orientato a una maggiore integrazione del capitale israeliano e palestinese nelle zone industriali orientate all’esportazione. Questa strategia economica ha solamente approfondito il legame del capitale palestinese con quello israeliano, trasformando le colpe del colonialismo israeliano nella reale struttura dell’economia palestinese. Ciò ha prodotto un aumento dei livelli di povertà e una crescente polarizzazione della ricchezza. In Cisgiordania il PIL pro capite è aumentato da 1400 dollari nel 2007 a circa 1900 dollari nel 2010, la crescita più veloce in un decennio. Allo stesso momento, il tasso di disoccupazione è rimasto essenzialmente costante al 20%, tra i più alti al mondo. Una delle conseguenze è stata un profondo livello di povertà: circa il 20% dei Palestinesi della Cisgiordania vivevano con meno di 1,67 dollari al giorno per famiglie di 5 persone nel 2009 e nel 2010. Nonostante questi livelli di povertà, il consumo del 10% più ricco è aumentato al 22,5% del totale nel 2010.

In queste circostanze, la crescita si è basata su incredibili aumenti nella spesa basata sul debito nei servizi e nell’immobiliare. Secondo la conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo (UNCTAD), il settore degli alberghi e ristoranti è cresciuto del 46% nel 2010, mentre le costruzioni sono cresciute del 36%. Nello stesso tempo la manifattura è scesa del 6%. I livelli massimi del debito basato sui consumi sono indicati in percentuali dall’Autorità Monetaria Palestinese, che mostra che il totale del credito bancario è quasi raddoppiato tra il 2008 e il 2010. Gran parte di questo ha riguardato la spesa dei consumatori sull’immobiliare residenziale, sull’acquisto di automobili, o sulle carte di credito; l’ammontare del credito esteso per questi tre settori è aumentato di un notevole 245% tra il 2008 e il 2011. Queste forme di credito al consumo e mutui possono potenzialmente portare profonde implicazioni su come le persone vedono la loro capacità di lotta sociale e la loro relazione con la società. Sempre più catturati in una rete di relazioni finanziarie, gli individui cercano di soddisfare le loro necessità attraverso il mercato, di solito prendendo soldi in prestito, piuttosto che attraverso la lotta collettiva per i diritti sociali. La crescita di queste relazioni finanziarie basate sul debito individualizza così la società palestinese. Essa ha avuto una influenza conservatrice sulla seconda metà degli anno ’00, con il grosso della popolazione preoccupato per la “stabilità” e la possibilità di saldare i debiti piuttosto che la capacità di resistenza popolare.

Oltre l’Impasse?

L’attuale cul de sac della strategia politica palestinese è inseparabile dalla questione della classe. La strategia dei due stati che ha preso corpo a Oslo ha prodotto una c lasse sociale che trae significativi benefici dalla sua posizione relativa ai negoziati e dai suoi legami con le strutture di occupazione. Questa è la ragione definitiva dell’atteggiamento politico supino dell’AP, e ciò significa che un aspetto centrale della ricostruzione della Resistenza Palestinese deve necessariamente confrontarsi con la posizione di queste elites. Negli ultimi anni ci sono stati segni incoraggianti in questo senso, con l’emergere di movimenti di protesta che hanno affrontato le condizioni economiche in deterioramento nella Cisgiordania e hanno esplicitamente denunciato il ruolo dell’AP in questo declino. Ma finché i principali partiti politici palestinesi continuano a subordinare le questioni di classe alla supposta necessità di unità nazionale sarà molto difficile per questi movimenti trovare un coinvolgimento maggiore.

Inoltre, la storia degli ultimi due decenni mostra che il modelli “falchi e colombe” della politica israeliana, così popolare nella copertura superficiale dei media di regime e condiviso a cuore pieno dalla leadership palestinese in Cisgiordania è decisamente falso. La forza è stata la levatrice fondamentale dei negoziati di pace. Piuttosto, l’espansione degli insediamenti, le restrizioni agli spostamenti e la permanenza si un potere militare hanno reso possibile la codificazione del controllo di Israele attraverso gli accordi di Oslo. Ciò non è per negare che differenze sostanziali esistono tra un continuum piuttosto che un taglio netto. La violenza e i negoziati sono aspetti complementari e reciprocamente rafforzantisi di un comune progetto politico, condiviso da tutti i partiti mainstream, ed entrambi portano in tandem ad approfondire il controllo israeliano sulla vita palestinese. Gli ultimi due decenni hanno potentemente confermato questo fatto.

La realtà del controllo israeliano oggi è l’emergere di un singolo processo che ha necessariamente unito violenza e l’illusione di negoziati come fossero una alternativa pacifica. La contrapposizione tra gli estremisti di destra e il cosiddetto fronte pacifista israeliano serve a offuscare la centralità della forza e il controllo coloniale incarnato nel programma politico degli ultimi.

La ragione di ciò è l’assunzione condivisa dalla sinistra sionista e dalla destra che i diritti palestinesi possono essere ridotti al problema di uno Stato da qualche parte della Palestina storica. La realtà è che il progetto degli ultimi 63 anni di colonizzazione in Palestina è stato il tentativo dei vari governi israeliani di dividere e frammentare il popolo Palestinese, tentando di distruggere una coesiva identità nazionale separandoli gli uni dagli altri. Questo processo è chiaramente illustrato dalle differenti categorie di Palestinesi: rifugiati, che restano confinati nei campi sparsi nella regione; quelli rimasti sulle loro terre nel 1948 e dopo sono diventati cittadini dello Stato di Israele; quelli che vivono nei cantoni isolati della Cisgiordania, e ora quelli separati dalla frammentazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Tutti questi gruppi costituiscono la nazione Palestinese, ma la negazione della loro unità è stata la logica dominante della colonizzazione da prima del 1948. Sia la sinistra sionista che la destra concordano con questa logica, e si sono mosse all’unisono per limitare la questione palestinese a isolati frammenti della nazione come fossero un tutto. Questa logica è anche completamente accettata dall’AP ed è incarnata nella sua visione della “soluzione dei due stati”.

Oslo può essere morta, ma il suo cadavere putrido non è ciò che ogni Palestinese dovrebbe sperare di resuscitare. Ciò che è necessario è un nuovo orientamento politico che rifiuti la frammentazione dell’identità palestinese in zone geografiche frammentate. È incoraggiante vedere il coro montante di chiamate ad un riorientamento della strategia palestinese, basata su un singolo Stato per tutta la Palestina storica. Questa posizione non sarà raggiunta solo con gli sforzi palestinesi. Essa richiede una sfida più ampia alle relazioni privilegiate di Israele con gli USA e alla sua posizione di Stato chiave del potere USA nel Medio Oriente. Ma una strategia per un solo Stato presenta una visione per la Palestina che conferma l’unità essenziale di tutti i settori del popolo Palestinese senza badare alla geografia. Essa fornisce inoltre uno strumento per connettersi con quella parte del popolo israeliano che rifiuta il sionismo e il colonialismo nella speranza di una futura società che non discrimini sulla base dell’identità nazionale e nella quale si possa vivere senza badare alla religione o all’etnia. È questa la visione che fornisce un percorso per avere insieme pace e giustizia.

thanks to: lacuocadilenin.noblogs.org

Salam Fayyad, the World Bank and the Oslo game

Most Palestinian analysts maintain that the Oslo agreements are to blame for the collapse of the Palestinian economy.

Triggered by gas-price increases, tens of thousands of Palestinian taxi, truck and bus drivers in the West Bank observed a one-day strike, effectively shutting down cities. This, as Al Jazeera reported, was the culmination of several days of protests where thousands of Palestinians, frustrated by the economic crisis in the West Bank, took to the streets. After these protesters forced the closure of government offices, Prime Minister Salam Fayyad decided to decrease fuel prices and cut the salaries of top Palestinian Authority officials in an effort to appease his angry constituents.

Prime Minister Fayyad, a former IMF executive, undoubtedly knows that both his previous decision to increase gas prices as well as his recent decision to decrease them will have no real effect on the looming economic crisis. Report after report has documented the Palestinian economy’s complete dependence on foreign aid, while underscoring the severe poverty and chronic food insecurity plaguing the population. These reports all suggest that Israel’s occupation is to blame for the unfolding economic debacle, raising the crucial question of why the Palestinians” wrath was directed at Fayyad rather than at Israel.

The clue to this enigma can be found in the missing chapter of a World Bank report published barely a week after the protests subsided. Warning that the fiscal crisis in the West Bank and Gaza Strip is deepening, the World Bank blamed the Israeli government for maintaining a tight grip over 60 per cent of the West Bank, denying Palestinians access to the majority of arable land in the area as well as limiting their access to water and other natural resources.

Remarkably, the economists who wrote the report highlight the impact of severe Israeli restrictions to Palestinian land but say nothing about economic policy. They seem to suggest that if only the Oslo process had been allowed to go forward, then the Palestinian economy would not be so badly off. Therefore they fail to mention the detrimental effect of the Paris Protocols, the Palestinian-Israeli Interim Agreement of April 1994 that spells out Oslo’s economic arrangements.

Interestingly, the three foundational documents that Fayyad has published since he began his tenure as Prime Minister – Palestinian Reform and Development Plan from 2008; Ending the Occupation and Establishing a State from 2009; and Homestretch to Freedom from 2010 – also fail to discuss the stifling effect the Paris Protocols have had on Palestinian economy. 

Spanning 35 pages – as opposed to NAFTA’s more than 1,000 pages – this economic agreement reproduces Palestinian subjugation to Israel, while undercutting the very possibility of Palestinian sovereignty. The agreement’s major problem, as Israeli economists Arie Arnon and Jimmy Weinblatt pointed out over a decade ago, is that it establishes a customs union with Israel based on Israeli trade regulations, allows Israel to maintain control of all labour flows, and prohibits the Palestinians from introducing their own currency, thus barring their ability to influence interest rates, inflation, etc.

Why, we need to ask ourselves, does Prime Minister Fayyad wish to “improve” the Paris Protocols, and why doesn’t the World Bank even mention the agreement, needless to say the severe limitations that it imposes on the Palestinian Authority’s ability to choose their own economic regime and adopt trade policies according to their perceived interests?

The answer has to do with a shared and ongoing investment in Oslo.

Prime Minister Fayyad, the World Bank and indeed most western leaders perceive the current economic crisis in the Palestinian territories as resulting from the collapse of the 1993 Oslo process. They would like to bring Oslo back on track, develop and expand it. By contrast, most Palestinian analysts currently maintain that the Oslo agreements are to blame for the collapse of the Palestinian economy.

The protesters know that the West Bank’s fragmentation, the Palestinians’ inability to control their own borders and the lack of access to huge swaths of land (which are highlighted in the reports), are intricately tied to the untenable customs union and the absence of a Palestinian currency. These restrictions are all part and parcel of the Oslo Accords and not an aberration from them.

Hence, it would be rash to think that the Palestinian protesters are blaming Prime Minister Fayyad for the economic crisis, since every West Bank resident knows all too well that the crisis is the result of the occupation. It consequently seems reasonable to assume that they are blaming Fayyad for continuing to play the Oslo game.

Palestinians have no sovereignty in the Occupied Territories, and yet they have a president, a prime minister and an array of ministers who for years now have postured as part of a legitimate government in an independent country. The only way to end the occupation is by forsaking Oslo; to force the Palestinian Authority to stop playing this futile game and to deal head on with its disastrous repercussions.

thanks to: Neve Gordon, the author of Israel’s Occupation that can be reached through his website.
Aljazeera.